La felicità è una
conquista intellettuale o un’esperienza dei sensi?
La felicità e il desiderio.
‘Non è possibile vivere felici se non si vive una vita saggia bella e
giusta, né vivere una vita saggia bella e giusta senza viver felici. A chi
manca ciò non è possibile viver felici.’
Epicuro, Massime capitali, V
‘Il vero desiderio è desiderio di un desiderio’.
Nota di
Alexandre Kojève al IV capitolo della ‘Fenomenologia
dello spirito’ di Hegel.
‘Estraneo a ogni logica, il desiderio gioca, ma il suo gioco non ha
regole, perché le regole sono la negazione del gioco, servono all’esclusione,
al ‘fuori gioco.’
Umberto Galimberti, Le
cose dell’amore, Feltrinelli, Milano, 2008, pag. 67.
La felicità non consiste nell'acquistare e nel godere, ma nel non
desiderare nulla, perché consiste nell'essere liberi.
Epitteto
CARTESIO, LE PASSIONI DELL’ANIMA, cap. 89
Il DESIDERIO è "un'agitazione dell'anima causata
dagli spiriti che la dispongono a volere per l'avvenire le cose che essa si
rappresenta come convenienti". Esso non ha un opposto, in quanto
l'avversione è un desiderio che tende a sfuggire un male.
"La natura, insieme alla differenza del sesso, che ha messo negli uomini
come negli animali privi di ragione, ha posto in noi anche certe impressioni
nel cervello per cui, a un'età e a un tempo determinati, ci si considera come
manchevoli, e come se si fosse solo la metà di un tutto di cui una persona
dell'altro sesso deve costituire l'altra metà [...] E pur vedendo molte persone
dell'altro sesso, non per questo ne desideriamo parecchie in una volta [...] ma
quando in una di quelle si nota qualcosa che ce la fa piacere più delle altre
[...] l'anima è spinta a provare per quella sola tutta l'inclinazione che la
natura le dà verso il bene considerato il più grande che si possa possedere. [...]
L'inclinazione che ne nasce è un desiderio chiamato amore, più comunemente che
non la passione d'amore descritta più sopra".
J. DEWEY, NATURA E CONDOTTA DELL’UOMO
Il desiderio è l’attività che cerca di procedere per rompere
la diga che la trattiene. L’oggetto che si presenta nel pensiero come la meta
del desiderio è l’oggetto dell’ambiente che, se fosse presente, assicurerebbe
una riunificazione dell’attività e la restaurazione della sua unità.
Lucrezio, De rerum natura, II, 1-33
E’ dolce, mentre nel grande mare i venti sconvolgono le
acque,
guardare dalla terra la grande fatica di
un altro;
non perché il tormento di qualcuno sia un
giocondo piacere,
ma perché è dolce vedere da quali mali tu
stesso sia immune.
Dolce è anche contemplare grandi contese
di guerra
apprestate nei campi senza che tu
partecipi al pericolo.
Ma nulla è più piacevole che star saldo
sulle serene regioni
elevate, ben fortificate dalla dottrina
dei sapienti,
donde tu possa volgere lo sguardo laggiù,
verso gli altri,
e vederli errare qua e là e cercare,
andando alla ventura,
la via della vita, gareggiare d’ingegno,
rivaleggiare di nobiltà,
adoprarsi notte e giorno con soverchiante
fatica
per assurgere a somma ricchezza e
impadronirsi del potere.
O misere menti degli uomini, o petti
ciechi!
In che tenebre di vita e tra quanto
grandi pericoli
si consuma questa esistenza, quale che
sia! E come non vedere
che nient’altro la natura latrando
reclama, se non che il dolore
sia rimosso e sia assente dal corpo, e
nella mente essa goda
di un senso giocondo, libera da affanno e
timore?
E dunque vediamo che alla natura del
corpo sono necessarie
assolutamente poche cose, quelle che
tolgono il dolore,
e sono tali che possono anche procurare
molte delizie;
né la natura stessa talvolta richiede
cosa più gradita –
se in casa non ci sono auree statue di
giovani
che tengano nelle mani destre torce
fiammeggianti,
sì che sia data luce ai notturni
banchetti,
né il palazzo rifulge d’argento e brilla
d’oro,
né alla cetra fanno eco i soffitti a
riquadri e dorati –
quando tuttavia, familiarmente distesi
sull’erba morbida,
presso un ruscello, sotto i rami di un
albero alto,
con tenui mezzi ristorano giocondamente i
corpi;
soprattutto quando il tempo arride e la
stagione
cosparge di fiori le erbe verdeggianti.
Orazio, ode ‘carpe diem’ (I 11)
Tu non cercare, saperlo è peccato, qual fine a me, quale a te
Gli dei han destinato, Leuconoe, e non tentare gli oroscopi
Babilonesi. Come meglio, tutto ciò che sarà, sopportarlo!
Siano molti gli inverti assegnati da Giove, o sia l’ultimo questo
Che ora strema il mare Tirreno su scogliere corrose,
sii saggia, filtra i vini, e dallo spazio tuo breve
recidi la lunga speranza. Mentre parliamo, sarà già fuggito
maligno il tempo. Cogli ogni giorno che viene,
senza farti illusioni sul domani.